Welcome!

Benvenuti in queste pagine dedicate a scienza, storia ed arte. Amelia Carolina Sparavigna, Torino

Sunday, October 28, 2018

Giona ingoiato e rigurgitato dalla Balena sotto l'albero di zucche



Image adapted from a courtesy picture by Mongolo1984, for Wikipedia.

Santa Maria in Valle Porclaneta, in Abruzzo, è una chiesetta situata nei dintorni di Rosciolo dei Marsi, alle falde del massiccio del Velino. Il pulpito fu realizzato nel 1150 da Roberto di Ruggero e Nicodemo da Guardiagrele [vedi nota a piè post]. La scala è decorata da pannelli scolpiti con scene dalla Vita di Giona. Eccolo quando viene ingoiato dalla balena. 

Il Signore comanda a Giona di andare a predicare a Ninive. Giona invece fugge a Tarsis su una nave che è investita da un temporale e rischia di colare a picco dalla violenza delle onde. Giona, ritrovato il coraggio, svela ai compagni di viaggio che la colpa dell'ira divina è sua, poiché ha rifiutato di obbedire al Signore. E così Giona è gettato in mare, ma un grande pesce lo inghiotte. Dal ventre del pesce, dove rimane tre giorni e tre notti, Giona rivolge a Dio la sua preghiera. Dietro comando divino, il pesce vomita Giona sulla spiaggia. Giona così può svolgere la sua missione e va a predicare ai niniviti. Questi, contro ogni aspettativa, gli credono, proclamano un digiuno, si vestono di sacco e Dio decide di risparmiare la città. Ma qui riemerge l'istinto ribelle di Giona: lui non è contento del perdono divino, voleva la punizione della città di Ninive. Deluso chiede a Dio di farlo morire. Così Giona si siede davanti alla città e attende gli eventi. Il Signore fa spuntare un ricino sopra la sua testa per apportargli ombra ed egli se ne rallegra moltissimo. Ma all'alba del giorno dopo un verme rode il ricino che muore, il sole e il vento caldo flagellano nuovamente Giona, che invoca di nuovo la morte. Iddio allora gli spiega: se tu ti rattristi a morte per una pianta di ricino, a maggior ragione mi ero rattristato io per la possibile morte di innocenti fra cui centoventimila persone e tanti animali.




Giona rigurgitato dalla Balena sulla spiaggia, siede sotto un'albero da cui pendono delle zucche.
Image adapted from a courtesy picture by Mongolo1984, for Wikipedia.


E' molto interessante che in Santa Maria in Valle Porclaneta Giona venga ritratto, risputato dalla Balena, e poi seduto sotto un albero da cui pendono le zucche. Ricordiamo che la cucurbitacea è pianta rampicante e quindi dobbiamo vederla avvolta all'albero da cui poi sembrano pendere i frutti.
Il testo CEI della Bibbia dice che "E il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sull'asciutto. Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore:  «Alzati, va' a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò»." E non parla quindi di zucche.
Come ci spiega Edouard Urech nel suo Dizionario dei simboli cristiani, Edizioni Arkeios, 1995, la prima scena di Giona, solitamente rappresentata nell'arte Cristiana, è quella che mostra Giona gettato in mare ed ingoiato dal pesce. La scena diventa simbolo di morte e resurrezione (non a caso Giona resta tre giorni e tre notti nella Balena). La seconda scena della storia di Giona, dopo quella del pesce che lo ingoia, lo vede rappresentato sotto un albero ricco di fronde o completamente secco. E' allusione alla parabola che chiude il libro (Gio. 4, 5-11), la parabola che fa comprendere che se Giona ha pietà di un albero, anche Dio ha il diritto di aver pietà di coloro che si pentono.
Ma di che albero si tratta?

Dal Dizionario dei simboli cristiani. "La parola ebraica kikajon indica il ricino, ma i LXX (traduzione greca dell'Antico Testamento del III secolo a.C.) rendono questa parola con kolokunté (zucca), versione accettata per parecchi secoli. Nella sua famosa traduzione latina della Bibbia, Gerolamo traduce questa parola con hedera (edera). Il suo amico Ruffino di Aquileia si strappava i capelli, dicendo: una simile correzione presuppone che i LXX hanno sbagliato, e ciò lascia intendere che tale traduzione sarebbe stata privata (su questo punto) dell'azione dello Spirito Santo; giungeva fino a chiedersi che cosa sarebbero divenuti gli affreschi che rappresentavano Giona sotto una pianta di  zucca, se si dovesse correggerli sostituendo la cucurbitacea con l'edera ... in attesa che quest'ultima venisse sostituita, a sua volta, da un'altro arbusto. Questa fu l'origine di una strana disputa fra questi due Padri della Chiesa, che né l'uno né l'altro riuscì a placare. Molti artisti avevano rappresentato Giona sotto un pergolato che sorreggeva un fusto sarmentoso guarnito di foglie e fiori di zucca, più o meno allungati come zucchine.
La discussione passò dai teologi ai fedeli e non fu meno penosa. Quando un vescovo osò leggere il racconto biblico nella nuova versione di Gerolamo e parlò di edera, ci fu un notevole tumulto e si gridò al sacrilegio; ne seguì una sommossa. Sant'Agostino trattò in guanti bianchi Gerolamo, scrivendogli una lunga epistola, alla quale egli rispose aspramente, ma riconobbe, dopo dei brutti giochi di parole sul suo contraddittore, che non esistevano in latino parole corrispondenti alla pianta in questione, perché essa era sconosciuta nel mondo occidentale.
Tutto ciò non spiega il fatto che la zucca, o la zucchina, siano divenute gli attributi costanti di Giona."

Potrebbe essere che la zucca, almeno quella conosciuta in Europa in antichità, non è pianta perenne ma annuale e che quindi nasce e secca, come l'albero di Giona, a simboleggiare morte e rinascita. Forse è anche simbolo dell'animo del profeta, così altalenante nei suoi propositi. Ma forse una spiegazione è che il racconto di Giona era un antichissimo racconto di tradizione popolare che aveva la zucca come protagonista in quanto cibo molto comune.

Wikipedia ci dice che le zucche sono riportate anche nel Corano. "Se non fosse stato uno di quelli che glorificano Dio, sarebbe rimasto nel ventre (della balena, cfr) fino al Giorno della Resurrezione"  (Corano, sūra 37, Āyāt 143-144). Non appena Giona fu arrivato sulla riva del mare, Dio gli fece crescere una pianta di zucche. La sura 37 afferma che Giona riuscì a convertire gli abitanti di Ninive.

Per inciso, è curioso che in genere si parli delle zucche come originarie dell'America. Da Wikipedia: "La zucca è stata importata in Europa dai coloni spagnoli dall'America". Ma, come dice bene l'Istituto Superiore Zanelli, "A Roma dal I° secolo a.C. al III° d.C. [la zucca] figura nelle mense semplici allo stesso prezzo del cocomero e la sua comparsa nei pranzi citati da Marziale a Plinio ne preannuncia la fortuna in età moderna, mentre è presente nei manuali di orticoltura e in tutti i ricettari, dall'anonimo toscano della fine del '300 sino all'Artusi." Insomma, c'è zucca e zucca, e quella di Halloween, che oggi è l'archetipo di zucca, è arrivata in Europa dall'America.
Volete anche una ricetta? Ecco il link . Sempre in questo link, Elena Grasso scrive: "Lo studio dei testi antichi dimostra come la zucca era conosciuta nel bacino del mediterraneo già ai tempi dei greci e dei romani. Nella satira di Seneca intitolata Apolokyntosis, cioè la deificazione di una zucca (dal greco Ἀποκολοκύντωσις con chiaro riferimento ad κολόκυνθα cioè zucca, ancor oggi, in greco zucca si dice κολoκΰθi), l’imperatore Claudio era definito appunto “zuccone”. Inoltre, Marziale (libro XI, 31) scrisse di un pranzo a base di zucche, dall’antipasto al dessert, noioso come non mai ma molto economico per l’anfitrione Cecilio. Le zucche sono citate anche da Dioscoride e Plinio il vecchio (il primo ad utilizzare il nome di cucurbita), e l’uso di alcune specie di Lagenaria (dal greco làgenos, fiasco, forse da lagon, spazio vuoto) ci è stato tramandato in molte raffigurazioni alto-medievali ben precedenti i viaggi di Colombo." Ed in effetti, nell'illustrazione della scena di Giona che vediamo nella seconda immagine c'è la zucca a fiaschetta.

Concludiamo ricordando che nel Martirologio Romano, alla data del 21 settembre, si legge "Commemorazione di san Giona, profeta, figlio di Amittai, sotto il cui nome è intitolato un libro dell'Antico Testamento; la sua celebre uscita dal ventre di un grosso pesce è interpretata nel Vangelo come prefigurazione della Risurrezione del Signore". Secondo un'antica tradizione le spoglie di Giona si troverebbero nella cattedrale di Nocera Inferiore. Il vescovo Simone Lunadoro descrive come avvenne il ritrovamento del corpo del profeta.

-------------
Una piccola nota sulla bottega di artigiani ed artisti che ha creato il pulpito di Santa Maria in Valle Porclaneta

Ruggero, Roberto e Nicodemo, da Treccani

Erano scultori appartenenti a una bottega operante in varie località dell'Abruzzo intorno alla metà del sec. 12°. La prima testimonianza della loro attività è costituita dal ciborio della chiesa abbaziale di San Clemente al Vomano (prov. Teramo). Tal ciborio può essere assegnato a Roberto e a suo padre Ruggero. Nell'abbazia di San Clemente a Casauria (prov. Pescara) la medesima bottega dovette realizzare un ciborio, oggi perduto, forse commissionato, insieme a quello esistente a San Clemente al Vomano, dall'abate Oldrio negli anni 1136-1147.
Nel 1150 Roberto, questa volta non più associato al padre ma a Nicodemo, firmò il pulpito nella chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo (prov. L'Aquila) nella Marsica, secondo quanto si legge nell'iscrizione lungo il parapetto della scala. Il pulpito, frammentario, è addossato al secondo pilastro della navata centrale. Il programma iconografico si può parzialmente ricostruire grazie al confronto con i pulpiti di Santa Maria del Lago a Moscufo e di S. Stefano a Cugnoli (prov. Pescara): dei quattro simboli degli evangelisti resta solo il corpo acefalo del leone sulla parte bassa del lato anteriore; su questo stesso lato, entro riquadri, sono raffigurati due diaconi con il turibolo e con il libro - probabilmente i ss. Stefano e Lorenzo -, la Lotta di Davide con l'orso e la Danza di Salomè. Lungo il parapetto della scala si svolgono le Storie di Giona. Contestualmente i due scultori eseguirono nella stessa chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta anche il ciborio che, assai simile nella struttura a quello di San Clemente al Vomano, se ne differenzia per alcuni elementi. Le colonne impiegate non sono di spoglio e il corpo del baldacchino su tutti e quattro i lati presenta archi trilobi e non un doppio arco a ferro di cavallo. Secondo una lapide un tempo murata a sinistra dell'altare, nel 1151 Nicodemo avrebbe costruito un ciborio nella chiesa parrocchiale di S. Cristinziano a San Martino sulla Marrucina presso Guardiagrele (prov. Chieti), di cui restavano quattro colonnette ottagonali sormontate da capitelli prima che l'edificio fosse distrutto da una tromba d'aria nel 1919.
Nel 1159 Nicodemo da solo firmò ed eseguì il pulpito di Santa Maria del Lago a Moscufo, come indicano le iscrizioni. L'ultima opera documentata è il frammentario pulpito della chiesa di S. Stefano a Cugnoli, proveniente dalla chiesa di S. Pietro, eseguito nel 1166 da Nicodemo, che replicò il tipo precedente con pochissime varianti. Un'iscrizione ne attesta la committenza di Rainaldo di Collemezzo, abate di Montecassino dal 1137 al 1166.
Per quanto riguarda l'origine della bottega e lo stile delle opere, gli studiosi ne hanno variamente evidenziato gli influssi arabeggianti nelle fittissime decorazioni, negli ornati che simulano caratteri cufici e nell'impiego dell'arco a ferro di cavallo o trilobo. Recentemente l'influenza islamica è stata riconosciuta mediata attraverso la Puglia, la Sicilia, la Spagna (Córdova, Toledo) e l'Africa settentrionale (Tunisia). Inoltre, i componenti della bottega, non abruzzese, sono stati ritenuti di origine normanna. Accertati gli indubbi caratteri islamizzanti che segnano le opere della bottega di Ruggero, Roberto e Nicodemo, sono stati individuati il loro antecedente in un gruppo di sculture che, sebbene non possano ritenersi prodotte da uno stesso atelier, ne manifestano però un indirizzo stilistico unitario. 

Saturday, October 27, 2018

San Pietro in Vincoli

Dal sito
https://www.romasegreta.it/monti/s-pietro-in-vincoli.html

"La basilica di S.Pietro in Vincoli deve il suo nome alle catene (dal latino vincula, catene) qui conservate e che, secondo la tradizione, furono utilizzate per legare S.Pietro durante la sua prigionia a Gerusalemme e nel Carcere Mamertino. Nel V secolo d.C. l'imperatrice Elia Eudocia, moglie dell'imperatore d'Oriente Teodosio II, ebbe in dono dal Patriarca di Gerusalemme, Giovenale, le catene con le quali, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, S.Pietro era stato imprigionato a Gerusalemme. L'imperatrice inviò le catene alla figlia, Licinia Eudossia, moglie dell'imperatore d'Occidente Valentiniano III, la quale volle donarle personalmente a papa Leone I, detto anche Leone Magno. La Chiesa era già in possesso delle catene utilizzate per la prigionia di S.Pietro nel Carcere Mamertino, cosicché, quando il pontefice accostò le due catene, queste si fusero miracolosamente per divenirne una soltanto."

Al link dato sopra, potete vedere le catene miracolose conservate nella basilica.
Mi hanno ricordato il dipinto di Gherardo delle Notti, dove l'Angelo libera Pietro dai vincoli.



Per vedere le catene nella fotografia del quadro ho dovuto usare il Retinex.

GIMP Retinex filter applied to arts: Gerrit van Honthorst and his Chiaroscuro: Here we apply the Retinex tool of GIMP software for filtering the digital images of the masterpieces of an artist that used the Chiaroscuro, a strong tonal contrast between light and dark, in his painting technique. In particular, we use the GIMP Retinex for some works of Gerrit van Honthorst, known in Italy as Gherardo delle Notti. The filter allows the vision of significant details in the shadows of the image. 

 Gherardo delle Notti (Utrecht, 4 novembre 1592 – Utrecht, 27 aprile 1656), è stato un pittore olandese. All'inizio della sua carriera visitò Roma, dove venne a conoscenza delle opere dei maestri italiani e da cui fu influenzato, specialmente da Caravaggio. È proprio da quest'ultimo che trasse ispirazione per la caratteristica illuminazione usata in parte dei suoi dipinti. Ritornato nei Paesi Bassi, divenne uno dei pittori di spicco del suo periodo, dipingendo sia quadri che ritratti. 

Thursday, October 25, 2018

Cartolina - Torino - Piazza del Municipio


Autore: Martín Barona,   https://www.pexels.com/@martin-barona-143731

Ring of twinned cities

Il 3 luglio 1958 fu firmato a Liegi un gemellaggio tra 6 città rappresentanti degli altrettanti Paesi fondatori della C.E.E. (Comunità Economica Europea, costituita a Roma con il Trattato firmato il 25 marzo 1957). 
Tale gemellaggio plurimo chiamato "Ring of twinned cities" (Colonia, Esch-sur-Alzette, Liegi, Lille, Rotterdam, Torino) trovò fondamento nello spirito di solidarietà esistente tra le città coinvolte, nel forte senso di appartenenza alla comunità europea e nei profondi sentimenti di affinità in numerosi settori, quali l'economia, la storia e la cultura.

On July, 3rd 1958 in Liège a twinning agreement was signed by the 6 cities representing the 6 founding Countries of EEC (European Economic Community, constituted in Rome with the Treaty signed on March, 25th 1957). This multiple twinning called "Ring of twinned cities" (Cologne, Esch-sur-Alzette, Liège, Lille, Rotterdam, Turin) was based on the solidarity existing among the involved cities, on the deep sense of belonging to the European Community and on affinities in different fields, such as economy, history and culture.

Filiberto


Ritratto di Emanuele Filiberto, principe di Savoia, 1624,   Antoon Van Dyck.

Emanuele Filiberto di Savoia (Torino, 16 aprile 1588 – Palermo, 4 agosto 1624) , terzo figlio del duca Carlo Emanuele I di Savoia e dell'infanta Caterina Michela d'Asburgo.

Van Dyck. Pittore di corte: la mostra a Torino nel 2018-19

«Grande per la Fiandra era la fama di Pietro Paolo Rubens, quando in Anversa nella sua scuola sollevossi un giovinetto portato da così nobile generosità di costumi e da così bello spirito nella pittura che ben diede segno d'illustrarla ed acrescerle splendore.»
Il giovinetto era Antoon van Dyck.


Il principe Tommaso Francesco di Savoia Carignano , 1634, Antoon van Dyck
Sempre in ammirazione di questo quadro.

Prepariamoci alla mostra.
"La Galleria Sabauda di Torino accoglie, dal 16 novembre 2018, una nuova grande mostra dedicata a Antoon Van Dyck (1599-1641), il miglior allievo di Pieter Paul Rubens, che rivoluzionò l’arte del ritratto del Seicento. La mostra “Van Dyck. Pittore di corte” vuol fare emergere l’esclusiva relazione che il pittore ebbe con le corti più importanti, italiane ed europee, per le quali dipinse innumerevoli ritratti, capolavori unici per elaborazione, qualità cromatica, eleganza e dovizia nella riproduzione soddisfacendo le esigenze di rappresentazione delle classi regnanti."

Quando 16 novembre 2018 - 17 marzo 2019
Orario: 09:00 - 19:00

Dove Musei Reali, Piazzetta Reale, 1 - Torino

Monday, October 22, 2018

Tendenza della Storia? Un passo di Otto Schönberger, "Tendenz" im Bellum Gallicum, 1990, sull'approccio di Rambaud all'opera di Giulio Cesare.

Michel Rambaud (1921-1985), è stato uno studioso francese, professore di Latino alla Faculté des lettres et sciences humaines di Lyon. E' stato membro della Société historique, archéologique et littéraire de Lyon. Ha pubblicato nel 1952 l'opera intitolata "L'art de la déformation historique dans les commentaires de César.". E' un titolo che ci dice esplicitamente quello che si può trovare in detta opera. Ed in effetti, chiunque consideri Giulio Cesare come un dittatore, nel senso moderno del termine, troverà in questo libro tutto il supporto al caso suo.
In Rambaud troviamo i punto di partenza di alcuni studi che rendono Cesare come un genocida, nello specifico degli Usipeti e Tencteri. Abbiamo discusso (Zenodo) che questi popoli non sono scomparsi dalla storia, anzi li ritroviamo a sconfiggere i Romani nella Clades Lolliana (una sconfitta di cui si parla poco, avvenuta sotto Augusto). Marco Lollio subì da parte di  Sigambri, Usipeti e Tencteri una disastrosa sconfitta nel 17 a.C., dove perse l'aquila della legio V. La Clades Lolliana è stata, secondo Svetonio, una sconfitta paragonabile solo a quella di Publio Quintilio Varo nella battaglia di Teutoburgo. 
C'è una contraddizione nell'opera di Rambaud ed è la seguente. A proposito di Usipeti e Tencteri, Peter Hueber, il cui libro Michel Rambaud loda fra tutti quelli che cita nella sua bibliografia come "très important" (pag. 386), e che  Matthias Gelzer accomuna con Rambaud nella sua critica al loro approccio all'opera di Cesare, nega addirittura che vi sia stato massacro degli Usipeti e Tencteri, sostenendo che fu una tipica esagerazione di Cesare per autoincensarsi [Vedi nota alla fine del Post]. 
Ma torniamo a pensiero di Rambaud; egli sostiene nel suo libro, che la deformazione storica in Cesare assurga addirittura a livello di distruzione della verità, "un classico esempio di rapporto tendenzioso". Ecco che cosa dice  Otto Schönberger [C. Iulius Caesar, Der Gallische Krieg, Lateinisch-deutsch, Herausgegeben von Otto Schönberger, München und Zürich, 1990], nel seguente riferimento segnalatomi da Francesco Carotta.

S. 667
„Tendenz“ im Bellum Gallicum
[…]
Man warf Caesar vor, sein Buch sei voll von Verschleierungen und Entstellungen der Wahrheit. Besonders Michel Rambaud behauptet in seinem Buch über die historische Deformation bei Caesar, es handle sich um ein Pamphlet, das die Wahrheit zerstöre, ein klassisches Beispiel tendenziöser Berichterstattung. Alles, was Caesar sage, diene seiner Verherrlichung oder Entschuldigung. Rambaud (177 f.) führt eine Reihe von Techniken auf, die Caesar anwende, um die Wahrheit zu entstellen: zu große Zahlen, Übertreibungen, Ungenauigkeiten, Verkleinerungen usw. Die Kunstmittel der hellenistischen Historiographie, die ästhetischen Zwecken dienten, seien dazu verwendet, dem Leser Caesars Sicht der Ereignisse zu insinuieren. Rambaud übertreibt jedoch ein sinnvolles kritisches Prinzip. Mit Hilfe seiner Methode ließe sich unschwer beweisen, daß die Eroberung Galliens nicht stattfand und Caesar nur eine Falschmeldung darüber verbreitete.
[…]
C. Iulius Caesar, La Guerra Gallica, Latino-tedesco, a cura di Otto Schönberger, Monaco e Zurigo, 1990.
p. 667
„Tendenza“ nel Bellum Gallicum
[…]
Si è rimproverato a Cesare che il suo libro sia pieno di dissimulazioni e di travisamenti della verità. Particolarmente Michel Rambaud sostiene nel suo libro sulla deformazione storica in Cesare, che si tratti di un libello che distrugge la verità, un classico esempio di rapporto tendenzioso. Tutto quel che Cesare dice, sarebbe al servizio della sua esaltazione o giustificazione. Rambaud (177 sq) enumera una serie di tecniche usate da Cesare per alterare la verità: numeri troppo grandi, esagerazioni, imprecisioni, riduzioni ecc. Gli artifici della storiografia ellenistica, che servivano a fini estetici, sarebbero stati impiegati per insinuare al lettore il punto di vista di Cesare sugli avvenimenti. Rambaud esagera però un principio critico sensato. Coll’ausilio del suo metodo si potrebbe facilmente dimostrare che la conquista della Gallia non ebbe luogo e che Cesare aveva soltanto diffuso una bufala.
[Traduzione di Francesco Carotta]

Usando il metodo Rambaud, "si potrebbe facilmente dimostrare che la conquista della Gallia non ebbe luogo e che Cesare aveva soltanto diffuso una bufala." Sembra quindi, dalle parole di Schönberger, che il metodo Rambaud sia facile da usare per fare proprio quello di cui Rambaud accusa Cesare, ossia mistificare i fatti. E ciò è stato già notato da un altro critico di Rambaud, Baldson, che accusa Rambaud, sotto il pretesto di criticare l’art de la déformation historique di Cesare, di praticare lui stesso l’art de la déformation historiographique.

Dall'articolo di J. P. V. D. Balsdon, 1955, https://doi.org/10.2307/298756
p. 164: For R. there seems to be no halfway house between believing that everything Caesar wrote is true and believing that everything he wrote is untrue. And such is the determination with which he seeks to prove the case, that it is tempting to see in it l’art de la déformation historiographique.

-----

NOTA: Francesco Carotta, che mi ha segnalato il passo di Huber, mi ha anche gentilmente dato una traduzione. Eccola.

Peter Huber, Die Glaubwürdigkeit Caesars in seinem Bericht über den Gallischen Krieg, [1. Auflage: 1914] 2. Auflage: 1931.
S. 5–10: Einleitung.
S. 9: […]
Als letztes Beispiel ziehe ich heran Cäsars Bericht über die Vernichtung der Usipeter und Tencterer, wo er uns glauben machen will, die 430000 germanischen Auswanderer hätten sich abschlachten oder in das Wellengrab des Rheins jagen lassen, ohne daß von seinen Soldaten auch nur ein einziger gefallen sei (IV 15). Meines Erachtens richtet sich eine derartige Aufschneiderei von selbst[4], ich kann sie aber auch noch entkräften durch den Hinweis auf den glänzenden Sieg, den Tags zuvor 800 tapfere Reiter dieser Völker über 5000 römische davongetragen hatten (IV 12). Solche Leute lassen sich nicht von Schrecken gelähmt abschlachten wie Schafe, Außerdem verweise ich auf Rauchensteins [Der Feldzug Cäsars gegen die Helvetier, Zürich 1882] wichtige Beobachtung, daß die beiden angeblich … [von Cäsar]

[4] Übrigens waren ja bei den Römern solche Übertreibungen (namentlich Barbaren gegenüber) gang und gäbe. Vgl. die unglaubliche Lüge bei Sueton, Div. Julius 25: Germanos, qui trans Rhenum incolunt, primus Romanorum ponte fabricato adgressus, maximis (?!) adfecit cladibus. Das kann uns nicht wundern, wenn Cäsar selbst (bell. civ. I 7, 6) zu einen Soldaten sagen konnte, sie hätten ganz Gallien und Germanien unterworfen!
S. 10:
[angeblich] … von Cäsar fast völlig vernichteten Völker später bei Tacitus eine große Rolle spielen (S. 25 f.). Das ist die „bewundernswürdige Objektivität“, die Schanz [Geschichte der Römischen Literatur, München 1909] an Cäsar zu rühmen weiß.
S. 69–77:
Caesars Kampf mit den Usipetern und Tencterern.
S. 69:
Auch die glühendsten Verehrer und begeisterten Bewunderer Cäsars müssen zugeben, daß sein Vorgehen gegen die Usipeter und Tencterer nicht einwandfrei ist. Da er nun ganz natürlich gerade in diesem Teil seines Berichtes beschönigen, verdrehen und entstellen mußte, so dürfte es nicht unangebracht sein, eingehend seinen Bericht zu analysieren, da ein solcher Versuch meines Wissens bis jetzt fehlt. Nur so wird sich zeigen lassen, daß wir doch in der Klarstellung des Sachverhaltes weiter kommen können, als man gewöhnlich glaubt.
Schon in der Einleitung habe ich bemerkt, daß die fast völlige Vernichtung der beiden Wandervölker, ohne daß die Römer irgend welche Verluste erleiden, in das Reich der Fabel zu verweisen ist. Denn sie spielen in den späteren Kämpfen zwischen Germanen und Römern eine große Rolle. Und besonders möchte ich hervorheben, daß sie schon in der Zeit des Drusus wieder als selbständige Völkerschaften erscheinen, während ihre angeblichen Beschützer, die Sugambrer, von Augustus auf das linke Rheinufer verpflanzt wurden[1]. Diese Beobachtung allein schon mahnt zur Vorsicht gegenüber Cäsars Darstellung.

[1] Bemerkenswert ist dabei, daß auch Augustus gegen diese sich einer ähnlichen Perfidie bediente wie Cäsar gegen die Usipeter und Tenkterer. Denn er ließ die vornehmen Gesandten derselben festnehmen und in gallischen Städten internieren. Nun erst war das seiner Führer beraubte Volk bereit sich links des Rheins ansiedeln zu lassen.
[…]
S. 75:
4. Zu zahlreichen Bedenken und Zweifeln gibt auch die Darstellung von der Flucht und Vernichtung der Germanen Anlaß. Daß das Anrücken der Römer, in deren Lager ihre Führer gelockt worden waren, größte Ratlosigkeit in den Reihen der Germanen hervorrief und ihre Widerstandskraft lähmte, ist ohne weiteres klar und zuzugeben. Aber wenig wahrscheinlich ist von vornherein die völlige Überrumpelung derselben. Es war doch nicht Nacht, sondern hellichter Tag. Soll man wirklich glauben, daß gar keine Sicherung vorgeschoben war[2], daß vollends auf der ganzen, 12 km langen Strecke von den so zahlreichen Germanen sich niemand befunden hat, der den Anmarsch der Römer hätte melden können? Schon die ganz natürliche Neugierde auf den Ausgang der Unterhandlungen verbietet eine solche Annahme. Dazu kommt, daß die Römer in voller Schlachtordnung[3] anrücken, so daß über ihre Absichten kein Zweifel herrschen kann. Es hält nun schwer zu glauben, daß völlige Kopflosigkeit unter den vielen Tausenden tapferer Germanen geherrscht und den Gedanken an verzweifelte Verteidigung gar nicht habe aufkommen lassen. Daß vollends nicht mehr Zeit war, um die Waffen zu ergreifen[4], ist weiter nichts als eine der üblichen Phrasen, die an Bedeutung nicht dadurch gewinnt, dass später darauf Bezug genommen wird. Denn 14, 4 ist die Rede von einigen, die schnell die Waffen ergreifen konnten und Widerstand leisteten, während die Weiber und Kinder flohen[5]. Was sollen denn unterdessen die übrigen Germanen getan haben? Und man wird … [jener Angabe]

[2] Ich bemerkte bereits, daß nach dem Berichte Cäsars für diesen Tag der Waffenstillstand nicht mehr galt. Ist es aber menschenmöglich, daß die vornehmen Germanen ohne derartige Garantien ins Lager Cäsars gegangen sind? Ich betone wiederum, daß ein solch geringes Entgegenkommen Cäsars ganz besonders seine Darstellung unwahrscheinlich macht.
[3] acie triplici instituta … ad hostium castra pervenit (14, 1).
[4] neque consilii habendi neque arma capiendi spatio dato (14, 2).
[5] at reliqua multitudo puerorum mulierumque passim fugere coepit (14, 5). Ohne Bedeutung? Eine solche Preisgabe dieser pignora, wie sie Tacitus Germ. 7 nennt, ist höchst befremdlich. Brauchen diese nicht die Martern und den Tod vonseiten der Gallier zu fürchten, wie das die Häuptlinge der Germanen vorgeben (15, 5) ?

S. 76:
[Und man wird] … jener Angabe um so weniger Glauben schenken, als in 15, 1 (Germani post tergum clamore audito, cum suos interfici viderent, armis abiectis signisque militaribus relictis se ex castris eiecierunt) das Wegwerfen der Waffen auf alle Germanen bezogen werden muß[1]. Man betrachte dann endlich die folgende Aufzählung bei Cäsar 15, 1 f.: Die Germanen werfen die Waffen weg, fliehen an den Rhein, geben dort die weitere Flucht auf und erst, als eine große Anzahl von ihnen getötet worden ist, stürzt sich der Rest in den Fluß. Da muß sich doch jedem die Frage aufdrängen: Warum stürzen sie sich denn nicht gleich in den Fluß, auf was sollen sie denn gewartet haben[2]? Es ist das übliche blutrünstige Bild der römischen Siegesbulletins und um so weniger glaubwürdig, als die Römer nicht einen einzigen Mann dabei verlieren[3]. Der Vorsichtige Cäsar hat aber auch die Germanen gleich die Waffen wegwerfen lassen und ihre tapferen 800 Reiter schweigt er an diesem Tage tot. Wer diesen Aufputz römischer Siegesnachrichten kennt, setzt hinter derlei Übertreibungen von vornherein ein großes Fragezeichen. Erwägt man aber die große Bedeutung, die den Usipetern und Tencterern später von Tacitus beigemessen wird[4], so ergibt sich ohne weiteres der Schluß, daß der Ausgang dieses Krieges ein ganz anderer, für die beiden Völker viel weniger verlustreicher gewesen sein muß. Ohne natürlich den Worten eine besondere Bedeutung beizulegen, möchte ich doch auf die Stelle 16, 2 hinweisen, wo statt dieses Untergangs der beiden Völker von einer „Flucht“ derselben gesprochen wird[5].

[1] Oder verbirgt sich hinter diesen Widersprüchen die Tatsache, daß nur ein Teil der Germanen um den Abmarsch zu decken die Römer bei der Wagenburg bindet und zur Entwicklung zwingt?
[2] Oder hat dort noch ein letzter Kampf stattgefunden ? Daß nämlich alle Germanen die Waffen weggeworfen hätten, ist ja an sich eine ungeheuerliche Übertreibung.
[3] Ich erinnere an die ähnliche Prahlerei II 11, 6: Bis zum Einbruch der Dunkelheit würgen die Römer unter den fliehenden Belgiern sine ullo periculo!
[4] Ich verweise auf meine Bemerkungen am Beginn dieses Abschnittes.
[5] accessit etiam, quod illa pars equitatus Usipetum et Tencterorum … post fugam suorum se trans Rhenum in fines Sugambrorum receperat. Auch möchte ich der Vollständigkeit halber VI 35, 5 buchen : Sugambri … a quibus receptos ex fuga Tencteros atque Usipetes supra docuimus.

——
Traduzione italiana:

Peter Huber, La credibilità di Cesare nei suoi commentarii sulla guerra gallica. [1ª edizione: 1914] 2ª edizione: 1931. Traduzione di Francesco Carotta.

p. 5–10:
Introduzione. p. 9:
[…]
Come ultimo esempio citerò il rapporto di Cesare sull’annientamento degli Usipeti e Tencteri, nel quale ci vuol far credere che i 430.000 emigrant germanici si siano lasciati massacrare o gettare nell’onda del Reno come in una fossa comune, senza che nemmeno uno solo dei suoi soldati sia caduto (IV 15). A mio avviso una tale millanteria si giudica da sola[4], ma la posso anche confutare facendo riferimento alla brillante vittoria che il giorno precedente 800 valorosi cavalieri di questi popoli avevano riportato su 5000 romani (IV 12). Gente simile non si lascia paralizzare dallo spavento e macellare come pecore. Rimando inoltre all’osservazione importante di Rauchenstein [Der Feldzug Cäsars gegen die Helvetier, „La campagna di Cesare contro gli Elvezi“, Zurigo 1882], che i due popoli …

[4] D’altronde tali esagerazioni (segnatamente verso i barbari) erano correnti presso i Romani. Cf. l’incredibile menzogna in Svetonio, Div. Giulio 25: Germanos, qui trans Rhenum incolunt, primus Romanorum ponte fabricato adgressus, maximis (?!) adfecit cladibus. Non ci può quindi più stupire che Cesare stesso (bell. civ. I 7, 6) abbia potuto dire ai suoi soldati che avevano soggiogato tutta la Gallia e la Germania!
p. 10:
… quasi completamente sterminati da Cesare avranno poi un ruolo importante in Tacito  (p. 25 sq.). Questa è la „ammirevole oggettività“ che Schanz [Geschichte der Römischen Literatur, „Storia della letteratura romana“, Monaco 1909] sa elogiare in Cesare.
p. 69–77:
La battaglia di Cesare con gli Usipeti e Tencteri.
p. 69:
Anche i più ardenti appassionati ed entusiasti ammiratori di Cesare debbono ammettere che le sue azioni contro gli Usipeti e Tencteri non sono irreprensibili. Dato che egli proprio in questa parte del suo rapporto ha dovuto abbellire, stravolgere e travisare, non dovrebbe essere fuori luogo analizzare accuratamente il suo rapporto, poiché un tale tentativo che io sappia finora manca. Solo così si potrà mostrare che nel chiarimento dei fatti si può progredire più di quanto ordinariamente si creda.
Già nell’introduzione ho segnalato che lo sterminio quasi completo dei due popoli migranti senza che i Romani abbiano avuto nessuna perdita, è da bandire nel regno delle fiabe. Poiché avranno un ruolo rilevante nelle battaglie posteriori fra Germani e Romani. E vorrei sottolineare particolarmente che già al tempo di Druso appaiono di nuovo come popoli autonomi, mentre i loro pretesi protettori, i Sugambri, vennero trapiantati da Augusto sulla riva sinistra del Reno[1]. Questa osservazione basta già da sola ad esortare alla prudenza riguardo alla descrizione di Cesare.

[1] Notevole è che verso di loro anche Augusto si sia servito di una perfidia simile a quella di Cesare contro gli Usipeti e Tencteri. Fece infatti arrestare i loro notabili venuti in ambasciata, ed internare in città galliche. Soltanto allora, privato dei propri capi, quel popolo accettò di farsi insediare a sinistra del Reno.
[…]
p. 75:
4. Anche la descrizione della fuga e dell’annientamento dei Germani dà adito a numerose riserve e dubbi. Che l’avanzata dei Romani, nell’accampamento dei quali erano stati attirati i loro capi, provocò una grande confusione nelle file dei Germani paralizzando la loro resistenza, ciò è senz’altro chiaro ed ammissibile. Ma meno probabile a priori è che gli stessi siano stati colti del tutto alla sprovvista. Non era di notte, ma in pieno giorno. Possiamo credere che nessuno era stato messo di guardia[2], che sul lungo tratto di 12 km non si sia trovato neanche uno dei così numerosi Germani che abbia potuto annunciare la marcia di avvicinamento dei Romani? Già solo la curiosità naturale per l’esito delle trattative vieta una tale ipotesi. Si aggiunga che i Romani avanzarono schierati in assetto da combattimento[3], cosicché non ci poteva essere alcun dubbio sulle loro intenzioni. È dunque difficile credere che le molte migliaia di valorosi Germani abbiano perso completamente la testa e che non gli sia venuta l’idea di tentare una disperata difesa. Che non ci sia più stato il tempo di afferrare le armi[4] non è altro che una delle solite frasi, che non acquisiscono maggior senso quando poi vi viene fatto riferimento. Poiché 14, 4 si parla di alcuni che riuscirono ad afferrare velocemente le armi ed opporre resistenza, mentre le donne ed i bambini scapparono[5]. Che cosa dunque avranno nel frattempo fatto i rimanenti Germani? E si presterà …

[2] Ho già menzionato che secondo il rapporto di Cesare la tregua in quel giorno non era più in vigore. Com’è dunque possibile che i notabili germani siano andati senza alcuna garanzia nell’accampamento di Cesare? Faccio di nuovo notare che una tale scarsa disponibilità di Cesare rende la sua descrizione particolarmente improbabile.
[3] acie triplici instituta … ad hostium castra pervenit (14, 1).
[4] neque consilii habendi neque arma capiendi spatio dato (14, 2).
[5] at reliqua multitudo puerorum mulierumque passim fugere coepit (14, 5). Senza senso? Una simile rinuncia di questi pignora, come Tacito Germ. 7 li chiama, è assolutamente sorprendente. Non temono essi la tortura e la morte per mano dei Galli, come i capi dei Germani asseriscono (15, 5) ?

p. 76:
… ancor meno fede a tale affermazione che in 15, 1 (Germani post tergum clamore audito, cum suos interfici viderent, armis abiectis signisque militaribus relictis se ex castris eiecierunt) il gettare le armi dovrebbe riferirsi a tutti i Germani[1]. Si osservi infine la seguente enumerazione in Cesare 15, 1 sq: I Germani gettano le armi, fuggono al Reno, cessano la fuga, e soltanto quando un gran numero di loro è rimasto ucciso, il resto si butta nel fiume. Qui gli viene a chiunque di chiedersi: Ma perché non si buttano subito nel fiume, ma cosa mai avranno aspettato[2]? È l’abituale affresco sanguinario dei bollettini della vittoria dei Romani, ed ancor meno credibile non avendo i Romani perso neanche un uomo[3]. Il prudente Cesare ha però anche fatto gettare le armi ai Germani, ed in questa giornata ha taciuto del tutto i loro valorosi 800 cavalieri. Chi conosce l’ornato degli annunci della vittoria romani, mette dietro simili esagerazioni un grosso punto di domanda. Se si considera però la grande importanza che viene accordata più tardi da Tacito agli Usipeti e Tencteri[4], si giunge senz’altro alla conclusione che l’esito di questa guerra deve essere stato un altro, con molte meno perdite da parte di entrambi i popoli. Senza naturalmente voler dare alle parole un particolare significato, vorrei però far notare il passo 16, 2, dove, invece della „rovina“ di entrambi i popoli, si parla di una loro „fuga“[5].

[1] Oppure si nasconde dietro tutte queste contraddizioni il fatto che per coprire la loro ritirata solo una parte dei Germani affronta i Romani fra i carri ed i bagagli vincolandoli, e coinvolgendoli nello sviluppo?
[2] Oppure ha avuto luogo colà un ultimo combattimento? Che infatti tutti i Germani abbiano gettate le armi, è già di per sé un’esagerazione inaudita.
[3] Rimando ad una simile vanteria II 11, 6: Fino al calar della notte i Romani si accaniscono contro i Belgi in fuga sine ullo periculo!
[4] Rimando alle mie osservazioni all’inizio di questo capitolo.
[5] accessit etiam, quod illa pars equitatus Usipetum et Tencterorum … post fugam suorum se trans Rhenum in fines Sugambrorum receperat. Per completezza vorrei registrare anche VI 35, 5 : Sugambri … a quibus receptos ex fuga Tencteros atque Usipetes supra docuimus.

Post archiviato
http://archive.is/R8woi

Sunday, October 21, 2018

Un Cuore nella Pietà di Michelangelo


Il Cristo e la Madonna, un Cuore unico nella Pietà di Michelangelo.
Immagine ottenuta con lo scan in 3D
https://it.wikipedia.org/wiki/Pietà_vaticana#/media/File:Scan_the_World_-_Pietà_(Michelangelo).stl

La Mappa dei Ferrero


Che Ferrero sia un cognome molto diffuso in Piemonte forse non sorprende, ma potete averne conferma visiva con la Mappa dei Cognomi. https://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani/FERRERO
La Mappa è una cortesia del sito Cognomix.it, Map tiles by Stamen Design, under CC BY 3.0. 

Il rasoio Villanoviano





"Il rasoio in bronzo è uno strumento da toletta di uso esclusivamente maschile, frequentemente deposto nei corredi funebri. Il rinvenimento, pur raro, in ripostigli ed in aree di abitato ne esclude tuttavia un uso esclusivamente rituale e funerario. ... L'uso di questo strumento nella cura della barba e della capigliatura maschili, ipotizzato già dai primi scavatori nell''800 sulla base di confronti etnografici, ha trovato conferma nel rinvenimento di almeno un esemplare che conservava, aderenti al taglio, alcuni peli di barba. La deposizione costante del rasoio all'interno delle sepolture maschili permette comunque di attribuire a questo oggetto, aldilà dell'uso pratico, un valore simbolico, forse legato al raggiungimento dell'età adulta. Questo esemplare si distingue per la decorazione incisa sulla lama, che ci restituisce l'immagine di un'ascia immanicata, suggerendo forse il possesso di questo oggetto di prestigio da parte del defunto." Provenienza: Bologna. Necropoli San Vitale, tomba 280
Datazione: 775 - 725 a.C, Materiale: Bronzo
Da http://www.museibologna.it/archeologico/percorsi/47680/id/47843/oggetto/47979/